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La Dimora del Graal

Antonio Amato espone MOBY-DICK



La mostra “Moby-Dick; or, The Whale” ha anche un sottotitolo: “Per una teleologia del Male”.


Si percepiscono curiosità, stupore e ammirazione per la mostra di Amato, che racconta il percorso della vita abitata dal bene e dal male, alla stessa maniera di una tela che diventa un pentagramma cromatico-figurativo, abile traduttore di emozioni e riflessioni.


La teleologia non fa riferimento soltanto ad una parola composta dai termini greci τέλος “fine” e λόγος “discorso”, ma un processo di concetti e indagini entro i limiti assonanti e dissonanti di libertà, causalità e finalità.


Sulla teleologia del male, Amato spiega:


«Il Male è l’entropia della forza vitale che muove la speranza di una resurrezione dalle sofferenze e dagli errori che la creazione distribuisce nel tempo come scarti di produzione, tentativi e prove fino alla definizione sempre più precisa della forma ottima, kalos, la vita giusta e bella.


Così ho provato, balbettando, a riferire il dramma che innerva la nostra esistenza, provando compassione per tutti noi che ne siamo irretiti, provando a mostrare una storia, che già tanti, come Melville, Coleridge o D’Arrigo, hanno scritto o continuano a scrivere.


Quello che ho fatto è provare a testimoniare la quotidiana lotta dell’uomo contro il male, attraverso la storia vera e comune dei marinai di una baleniera di fine ottocento.»


Forse che oggi l’umanità non si trovi in una grande baleniera di inizio Terzo Millennio?


Nella personale di Amato non sono le immagini a raccontare, ma è il racconto metaforico che si trasferisce sui disegni delineati dalle matite colorate, diventate strumenti di navigazione nei luoghi della storia umana, orientata ora dall’etica ora da una razionalità strategica e distaccata.


Papa Francesco di ritorno da Malta ha dichiarato:


«Sta vincendo lo schema di guerra, non quello di pace. Siamo tutti colpevoli, Dio abbia pietà di noi […] La guerra è sempre una crudeltà, è una cosa inumana e va contro uno spirito umano. È lo spirito di Caino.»


Quello stesso “spirito di Caino” che il nostro artista riesce a screditare tramite la narrazione evocativo-figurativa esposta.


Moby Dick di Herman Menville: l’equipaggio, una metafora


Non si può prescindere dall'equipaggio della Moby Dick di Melville per salpare sulla nave allregorica di Amato.


Capitano Achab, Ismaele, Queequeg, Moby Dick, Capitano Boomer, Starbuck, Padre Mapple, Stubb, Tashtego, Flask, Deggu, Elijah formano l’equipaggio della baleniera Pequod , “il nome di una famosa tribù d’Indiani del Massachusetts, ora estinta come gli antichi Medi”.


Fu scelto un “bastimento antico e raro […] Stagionato dal tempo e colorito nei tifoni e nelle calme di tutti e quattro gli oceani, il materiale dello scafo era annerito come la faccia di un granatiere francese che avesse fatto l’Egitto e la Siberia”.


La nave salpò dall’isola di Nantucket “una semplice collina, una barra di sabbia, tutta spiaggia, senza sfondo” per una missione insolita:


vendicarsi di Moby Dick, ovvero “quella maledetta balena bianca” – come viene chiamata dal capitano Achab, rimasto senza una gamba proprio a causa di Moby Dick “un capodoglio di una grandezza e malvagità insolite, il quale, dopo aver fatto grande danno ai suoi aggressori, era riuscito a fuggire liberamente […]


Moby Dick non soltanto possedeva l’ubiquità ma era immortale (poiché l’immortalità è soltanto l’ubiquità nel tempo):

che, sebbene selve di lance gli venissero piantate nei fianchi, lui si sarebbe sempre allontanato incolume, e non era tanto il suo non comune volume che così lo distingueva da tutti gli altri capodogli, quanto, com’è stato rivelato altrove, una particolare fronte rugosa, bianca come la neve, e un’alta, piramidale gobba bianca”.


Starbuck è il primo ufficiale del Pequod, nativo di Nantucket, dal temperamento cauto e con intelligenza vivace.


Stubb, nativo di Capo Cod, è il secondo ufficiale del Pequod, distinto “dall’invulnerabile spensieratezza e leggerezza indifferente, di contro alla “mediocrità generale” di Flask, il terzo ufficiale del Pequod, nativo di Tisbury, combattivo e tenace nella battaglia contro le balene.


Il capitano Boomer del Samuel Enderby, senza un braccio proprio a causa dell'attacco di una balena, non giustifica l’ossessiva idea di vendetta di Achab.


Tashtego, indiano proveniente da Capo Allegro, ramponiere e scudiero dal secondo ufficiale Stubb, insieme a Deggu, nero come il carbone, ramponiere e scudiero del terzo ufficiale.


Padre Mappe, un tempo marinaio e ramponiere, da ultimo dedito soltanto al suo ministero, è il parroco della chiesa di New Belford.


Proprio Padre Mappe sembra essere la chiave di volta nella comprensione del risvolto biblico del libro di Melville e, quindi, del leitmotiv della mostra allegorica di Antonio Amato.


Predica Padre Mappe:


«Amati compagni, prendete l’ultimo verso del primo capitolo di Giona: E Dio aveva preparato un gran pesce per inghiottire Giona. […] Che gran cosa è quel cantico dentro il ventre del pesce! […]


Come peccatori è una lezione per noi tutti, poiché è il racconto del peccato, della durezza di cuore, dei timori improvvisi, del rapido castigo, del pentimento, delle preghiere e finalmente della liberazione e della gioia di Giona […]».


Queequeg, nativo di Rokovoko, isola immaginaria dell’Oceano Pacifico meridionale, e figlio di un capo dei Mari del Sud che lasciò la casa per esplorare il mondo.


«Era d’un colore fosco, rossastro, gialliccio, tutta stampata qua e là di larghi riquadri nerastri […] Da principio non seppi che cosa pensare, ma subito mi si affacciò un sospetto della verità.


Ricordai la storia di un bianco, baleniere anche lui, che, capitando tra i cannibali, era stato tatuato.


Ne conclusi che al mio ramponiere nel corso dei suoi viaggi lontani doveva essere toccata un’avventura simile.


E che cosa importa, pensai, dopo tutto? È soltanto il suo esteriore: un uomo può essere onesto sotto qualunque pelle […] Sulla testa, quell’uomo non aveva capelli, o almeno, capelli che valga la pena di parlarne; nulla, tranne un piccolo ciuffo sul cocuzzolo, attorcigliato verso la fronte.»


E' Ismaele, il narratore che descrive Queequeg.


Ismaele, il protagonista della mostra e nome profetico


«Chiamatemi Ismaele.» - è l’incipit del libro di Melville.


Non a caso in Moby Dick romanzo e Moby Dick mostra di Amato è Ismaele la figura che tesse le fila del racconto, descrivendo le scene di caccia alla balena dal colore bianco, indecifrabile, priva di sottotitoli che possano spiegare la cecità del male capace di arrecare dolore, ferire, uccidere.


«[…] sempre cova nell’intima idea di questo colore qualcosa di elusivo che incute più panico all’anima di quel rosso che atterrisce nel sangue.»


Moby Dick affonda il Pequod.


Muore quasi tutto l’equipaggio, tra cui il capitano Achab che, nel ramponare la seconda volta il capodoglio, assimilato al mostruoso Leviatano biblico, viene trascinato dal cavo impigliatosi al collo insieme a Moby Dick negli abissi oceanici.


Si salva soltanto Ismaele afferrando la bara-gavitello che Queequeg, terrorizzato da una forte febbre, chiede al carpentiere della nave di costruire.


Trascorso un intero giorno e un'intera notte viene fortunosamente recuperato dalla nave Rachele, così come Ndrja Cambria viene traghettato da Ciccina Circè, la femminota suadente.


Forse che da una parte il trasbordo di Ndrja Cambria ad opera della femminota in Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo oltre lo Stretto e dall’altra parte il salvataggio fortunoso di Ismaele in Moby Dick tramite la bara intarsiata con strani geroglifici non sono parallele allegorie?


Il male che sfocia in bene, la morte che apre alla vita e poi la crocifissione sul dorso di Achab inferta dalle corde degli arpioni durante l’ultima caccia alla balena bianca accompagna prima ad una sofferta deposizione fino ad arrivare alla resurrezione che rinnova e libera dalle ombre malevoli.


La nave rimessa in mare per Ndrja Cambria, così come la bara-gavitello rappresentano paradossalmente il fine ultimo del male, ovvero la fase finale che traghetta verso il bene.


Forse che la lotta in cui l’umanità si ritrova contro venti impetuosi che gonfiano le vele e affondano le navi, oppure contro Leviatani mostruosi che deviano il percorso di ciascuna vita, non venga affrontata per essere vinta, così raggiungendo l’evoluzione del pensiero e la libertà dei sentimenti?


Proprio la “deposizione di Ndrja Cambria” è il disegno di Amato che contiene i messaggi della mostra:


il passaggio dal male al bene, perché nella natura umana abita la propensione a vincere il male e rivolgersi verso il bene.


Quindi, da una lettura a contrario si deduce la teleologia del male.


Si assiste alla resurrezione dell’Uomo ogni qualvolta rinunci a diventare preda dei propri biechi sentimenti, come Achab rispetto alla vendetta protratta verso Moby Dick, oppure si opponga a tenere condotte irrazionali alla maniera della balena bianca.


La personale di Antonio Amato è un documento che ricorda un evento storico e rielabora il romanzo "Moby Dick" con immagini scenografiche, delineate con matite colorate su carta.


La storia racconta di un capodoglio che affondò una nave salpata dal porto di Nantucket il 12 agosto 1849 in Massachusetts.


Era la baleniera Essex che qualche tempo dopo, il 20 novembre 1820, fu assalita da un capodoglio lungo circa 26 metri in mezzo all’Oceano Pacifico.


L’attacco contro la Essex fu sferrato in pieno giorno, durante una pausa della battuta di caccia in cui i balenieri erano impegnati.


Il capodoglio si avvicinò alla nave, colpendola sul fianco una prima volta, poi passò sotto la chiglia staccandone una parte.


Allontanatasi, tornò in rincorsa sulla Essex e l’affondò.


Invece della reale Essex abbiamo la Pequod letteraria e il capodoglio è immaginato con il nome di Moby Dick.


Non a caso Antonio Amato paragona i propri disegni a dagherrotipi, primo procedimento fotografico, risalente ai primi decenni dell’Ottocento, con precisa efficacia documentale di profili e ambienti circostanti, perché la mostra è un percorso evocativo, documentale, filosofico e religioso sul binomio Bene – Male introiettati e vissuti dall’umanità.


Moby Dick incarna il male dell’universo che attrae e rimanda al bene assoluto,

rappresenta l’antagonismo tra pericolo e azione, fede e animismo, razionalità e soprannaturale, certezza di una rotta e mistero degli abissi marini.


Moby Dick e Achab sono paradossalmente inseparabili, perché il male tende al bene e viceversa quando il bene venga di nuovo minacciato.


Moby Dick non muore mai…


Inoltre, da sempre l’umanità tende a manipolare, sopraffare, personalizzare gli equilibri della natura, ma è la natura che resiliente si adatta e l’umanità s’illude di avere vinto la battaglia.


La personale di Amato, alla pari del romanzo di Melville, racconta il viaggio dell’umanità proiettata oltre le Colonne di Ercole, disegnando passati scenari di un equipaggio che conosce la ricchezza dell’integrazione tra culture e trascorsi di vita diversi, nonché l’aridità della discriminazione e dell’esilio rappresentati dalle radici del nome "Ismaele".


Ismaele è un nome teoforico biblico che incorpora il nome di un dio, significa “Dio ha ascoltato”.


Ismaele, ripudiato dal padre Abramo e cacciato con la madre Agar, schiava egiziana, nel deserto di Paran, è l'esule miracolato da Dio facendo comparire un pozzo d’acqua che lo rianima.


Ismaele, narratore delle avventure sulla nave Pequod alla caccia di Moby Dick, è l'unico sopravvissuto all’inabissamento.


Ancora Ismaele è il punto cardine nel viaggio figurato disegnato da Antonio Amato e piace immaginarlo in cammino lungo il ciclo vitale dell’umanità.


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